Lavorazioni artigianali Andreane
Il territorio montano e pedemontano è caratterizzato da un assetto paesistico in cui convivono in modo sostanzialmente equilibrato interventi antropici tradizionali e recenti. La tradizione artigianale per la lavorazione del legno, del ferro e della pietra, strettamente legata alle risorse della montagna e del bosco, è ancora presente nell’economia locale e nelle botteghe artigiane dei nostri paesi.
La lavorazione del legno
La bottega del falegname, ricavata da una stanza della sua stessa abitazione, produceva mobili per la casa e attrezzi da lavoro, usando seghe, pialle, sgorbie e mazze. Il falegname fabbricava anche gli attrezzi per la stalla come le mangiatoie e gli sgabelli per mungere.
Nella sua bottega c'era sempre il banco, un tavolo di legno dalla struttura robusta completo di morse e di particolari fori a cui potevano essere applicati i morsetti con i quali si stringevano i pezzi da lavorare. Numerosi erano gli attrezzi per misurare e tracciare: righe, squadre (scuàres), compassi, metri e graffietti con i quali il falegname tracciava sui pezzi di legno cerchi, linee ad angolo o perpendicolari.
Al fine di tagliare e sagomare i pezzi di legno, il falegname usava diversi tipi di seghe: seghe a telaio, composte di un telaio in legno e da una lama dentata, tesa per mezzo di una corda torta da un listello di legno; il saracco, sega dalla lama libera a forma di trapezio, con una o due maniglie; il segone, con la lama in verticale, che veniva montato su di una struttura a cavalletto alta circa due metri, usata da due persone per ricavare tavole dai grossi tronchi.
Numerosi e di varie dimensioni erano pure gli attrezzi per forare il legno come i trapani (triviéles) e i succhielli (trevilins).
Per la lavorazione delle superfici venivano usate le pialle (splànes), costituite da un pezzo di legno moto duro e ben levigato, munito di una feritoia centrale dalla quale sporgeva una lama di acciaio, bloccata da un cuneo di legno. Le pialle con la lama sagomata servivano per eseguire le modanature. Per le incisioni venivano usati vari strumenti costituiti da manici e lame taglienti: gli scalpelli, dalla lama dritta, e le sgorbie (sgòibies), dalla lama a sezione curva. Completavano la strumentazione della bottega numerose mazze e mazzuoli, la pignatta per la colla, il tornio a pedale, morse e morsetti.
Molto diffusa, come in tutta la Valcellina, era (ma ancora oggi qualche artigiano continua questa attività) la lavorazione del legno (in genere acero) per ottenerne cucchiai, forchette, mestoli per polenta, etc. che venivano poi venduti nei mercati della pianura o dai venditori ambulanti assieme alle tabacchiere e ai pettini in osso.
La lavorazione dell'osso
Una delle attività artigianali in cui gli andreani erano maestri è la lavorazione dei pettini in osso che comprendeva le seguenti fasi di lavorazione:
1. - Scelta del corno 2. - Taglio del corno 3. - Apertura del corno 4. - Messa in morsa (2/3 giorni) 5. -Raschiatura dell'osso e bordatura interna 6. -Segnatura dell'osso 7. - Spianatura o piallatura dell'osso 8. - Tracciatura/segnatura dei denti 9. - Sega grossa e sega fine 10. - "A bisugna spiçàlu" 11. - "A se tira raspa" 12. - Arrotatura 13. - Lucidatura.
I pettini erano realizzati con le corna preferibilmente di toro adulto. Del corno venivano tagliati 6/8 cm. d'osso e bisognava prestare attenzione perché il corno era curvo e quindi in una parte risultava più lungo e nell'altra più stretto. Ricavato il pezzo, lo si tagliava longitudinalmente e poi lo si riscaldava per aprirlo. Per farlo veniva acceso un fuoco circolare e nel mezzo di questo venivano posti due mattoni sui quali si sistemavano i pezzi d'osso, in modo tale che si riscaldassero uniformemente in tutte le loro parti. Quando il corno incominciava a"bulià", a muoversi, allora era il momento in cui poteva essere aperto mediante le pinze. Una volta aperto, veniva posto in una morsa tra una placca di legno e una di ferro e stretto insieme con altri dieci o dodici pezzi; veniva lasciato così per due o tre giorni. Passato questo periodo di tempo, il pezzo veniva segnato per tiràlu dret e per dargli il primo abbozzo di forma. Venivano tagliati gli angoli per poterlo poi raschiare con il rascjn. Mediante questo attrezzo si eliminava l'esterno del corno, mentre l'interno rimaneva tale e quale, si levava appena un po' di bordo.
Oltre alla realizzazione di pettini in osso, gli artigiani di Andreis eranoapprezzati anche per la produzione di tabacchiere, ricavate sia dall'osso che dal legno. Quelle in osso erano prodotte tramite il riscaldamento del corno sulla fiamma per ammorbidirlo, a cui seguivano le fasi di pressatura, lisciatura e lavorazione a stampo. Sia le tabacchiere che i pettini venivano poi venduti anche molto lontano da Andreis: si racconta, che ancora nei primi anni del novecento qualche ambulante sia arrivato fino ai mercati di Istanbul, in Turchia.
Le calzature e l'abbigliamento
Tutte le calzature erano realizzate in paese e ce n'erano di diversi tipi a seconda della loro funzionalità.
La calzatura più diffusa era lo zoccolo in legno (lepalòtes), che per i lunghi tragitti risultava doloroso in quanto molto duro. C'erano le palòtes con una copertura in cuoio; le palòtes cui mane, tutte in legno; le palòtes cui claut, munite di ramponcini per poter camminare su neve e ghiaccio; i glacins, zoccoli senza chiodo che venivano usati nella bella stagione; i gris e le gròpeles, introdotti ad Andreis dopo la prima guerra mondiale, usati con gli scarponi, permettevano di camminare nel bosco ghiacciato. Per camminare sulla neve alta senza affondare venivano realizzate anche delle racchette in legno: le gjaspes.
Più morbide e utilizzate sia durante la settimana, sia la domenica come calzature di festa, erano le scarpetes, tipiche scarpette realizzate in stoffa e velluto nero. Per rifinire l'orlo, veniva usata la cordèla. La suola era composta da molti strati di stoffa, circa venti, fittamente trapuntati, che mediante un piccolo scalpello venivano sagomati fino a formare la suola rigida. A questa veniva poi unita la tomaia.
Le scarpetes erano molto resistenti e anch'esse di vario tipo: le scarpetes cui mane, scarpette con una calza già incorporata;scarpetes cu la rosa, con un fiocchetto come abbellimento; le scarpetes dretes, utilizzate dagli uomini. Le persone che le fabbricavano non erano molte: alcune donne coprivano il fabbisogno dell'intero paese.
Anche i vestiti, una volta, venivano realizzati in casa: da quelli per la festa a quelli da lavoro fino alla biancheria. Erano prodotti con la lana, il lino o la canapa, filati e tessuti in casa e prima di sostituire un vestito, lo si rattoppava fin che si poteva. Sul numero e sulla qualità dei capi d'abbigliamento, specialmente femminile, di un tempo siamo molto informati grazie ai patti dotali (la dota) che sono pervenuti a noi in buon numero. L'abbigliamento, in genere, era composto da: camicia da giorno (cjamesa), sottoveste (cotula sot), camicia da notte (cjamesa da not), farsetto, mutande, calze (di varie stoffe a seconda della stagione), fazzoletto da testa, fazzoletto da spalle e cuffia.
La lavorazione della lana
Una delle più importanti attività della società contadina è stata la filatura e in modo particolare la filatura della lana. Gli utensili per la lavorazione venivano realizzati dagli artigiani del paese. Strumenti di lavoro erano la rocca (rocja), formata da un asta con una estremità più grossa, attorno alla quale veniva avvolta la lana grezza, e il fuso (fùs), strumento che si assottigliava alle estremità e più grosso nel mezzo, che veniva fatto ruotare su sé stesso causando la torsione e l'avvolgimento del filo di lana. Dopo questo procedimento, il lavorato veniva sistemato sull'aspo (daspa), dove veniva dipanato eavvolto in matasse. Infine la lana veniva messa sull'arcolaio (disvoltadour) per essere avvolta in gomitoli. Diffuso in tutte le case era pure il mulinello da filare o filatoio (gurlèta), macchina in legno usata sia per torcere che per filare la lana
Le cràceles o raganelle
Il Giovedì Santo, dopo il Gloria, le campane venivano legate, e il loro suono (per richiamare la gente alle funzioni) era sostituito con quello delle raganelle, dette in andreano cràceles. Ad Andreis la tradizione è tuttora viva, e particolarmente belle sono le raganelle conservate nel museo.
La loro costruzione non era semplice: la struttura delle raganelle si basa su lamelle di legno battenti sui denti di ingranaggi rotanti in numero e forme vari.
Naturalmente in passato ne esistevano di più forme e misure: il crepitacolo (crizulìn) aveva una breve impugnatura portante una piccola ruota dentata che faceva anche da perno ad un piccolo corpo, come una clava, in cui era inserita una lamella di legno scattante ad ogni dente della ruota quando si imprimeva alla clava un moto rotatorio.
Alcuni tipi potevano essere portati a tracolla, altri venivano appoggiati a terra e azionati stando in ginocchio. Private o di proprietà della chiesa erano invece le raganelle molto grandi a forma di carriola oppure di cassa, con le quali si annunciava pubblicamente, lungo le strade o dal campanile, l'inizio delle funzioni religiose o si sottolineavano le ore liturgiche.
La lavorazione del ferro
Nella fucina del fabbro venivano prodotti tutti gli attrezzi in ferro che servivano per la casa, per i lavori dei campi e dei boschi e per le attività ad essi correlate: coltelli, forbici, pinze, martelli, tenaglie, asce, pale, falci, ronconi, ma anche serrature per porte e portoni, maniglie, lucchetti, chiavi, ferri per animali, candelieri e alari per i focolari.
Nella sua officina il fabbro forgiava i metalli con pochi arnesi: la principale macchina della fucina era il maglio che veniva azionato dalla forza dell'acqua. Il maglio dava al pezzo di ferro la prima impronta, dopodiché questo abbozzo, ancora incandescente, veniva plasmato sull'incudine con il martello o con la mazza a tenaglie fino a ottenere la forma desiderata. Il pezzo grezzo veniva poi rifinito a freddo sulla morsa. La fucina con il mantice (detta anche forgia), nella quale venivano scaldati i pezzi da forgiare, poteva essere di varie dimensioni. Era costituita da un focolare contenente carbone in combustione, da un mantice per alimentare, con il suo soffio violento, la combustione del carbone, da una cappa per allontanarne i gas e da alcune valvole per regolare il tiraggio dell'aria. Vi era poi una grossa e larga tenaglia (tenàa) di ferro per tenere il pezzo nella fucina ad arroventarsi e sull'incudine, ceppo in acciaio molto pesante sul cui piano veniva battuto il ferro.
La morsa, in acciaio o in ghisa, serviva per bloccare i pezzi durante le rifiniture.
Non mancavano mai punteruoli e scalpelli in acciaio per praticare fori, intagliare, incidere, modellare il metallo. C'erano inoltre gli utensili per la filettatura, con i quali si praticava un solco sulla superficie esterna di un cilindro per ottenere una vite o all'interno del cilindro per ottenere la madrevite: le filiere (per realizzane le viti) e i maschi (per le madreviti).
Fienagione e mietitura
Da sempre la fienagione è stata alla base dell'agricoltura di montagna poiché permetteva il completo sfruttamento di prati e pascoli per l'allevamento del bestiame. L'erba, che veniva tagliata alle prime ore del mattino, prima che il sole, asciugando la rugiada, la indurisse, veniva spinta con la falce verso sinistra, a formare l'andana, in modo da lasciare una parte libera ai falciatori per camminare. Veniva usata sia la falce fienaia (falz), composta da un asta di legno in genere di salice incastrata ad una lunga lama molto larga curvata ad arco e assottigliata in punta, sia il falcino (falcét) dalla lama più corta e più stretta e quindi più leggero e più adatto ad essere usato in alta montagna. Per tenere sempre a filo la lama delle falci c'era la cote (cóut), fatta di una particolare pietra arenaria, che veniva portata alla cintura all'interno del portacote, ricavato da un corno di bue e riempito d'acqua per rendere la cote più abrasiva.
Dopo la falciatura l'erba veniva stesa e mossa di tanto in tanto con la forca (fòrcja) o con il rastrello (ristiél). Se le giornate erano secche poteva essere lasciata sparsa. In caso di cattivo tempo veniva invece riunita in alti cumuli (cagól) attorno ad un palo a sostegno (medìl). Per il trasporto venivano usati vari mezzi: con la gerla sulla schiena o, specie se il viaggio era lungo, con la slitta.
Se non era possibile utilizzare la slitta, il fieno veniva trasportato tramite gerle di varia grandezza (cos) oppure grandi ceste cilindriche in vimini con un foro centrale (cos da fùa) sul quale veniva appoggiata la testa, utilizzate per lo più per il trasporto delle foglie secche.
Per la mietitura, invece, i contadini si servivano della falce messoria (sèsula) dalla stretta lama a forma di mezzaluna montata su un manico di varia lunghezza. Le spighe di grano venivano riunite in covoni e, trascorsialcuni giorni, trasportate nei granai per essere battute poi con il correggiato (batidour), attrezzo costituito da un corto bastone di legno duro unito ad un manico mediante una legatura di corda o di cuoio: veniva ritmicamente battuto sopra le spighe di grano per separare i chicchi dalla pula. Vi era poi il crivello per il vaglio del grano (vàl, taméis), un setaccio in vimini a forma di conchiglia, sul quale si passava al setaccio il grano per separarlo dai frammenti di paglia e spighe e dai chicchi più piccoli o di cattiva qualità.
La lavorazione del latte
L'alpeggio e le attività che ad esso si collegano sono state presentì nel territorio di Andreis (come in tutto l'arco alpino) fin dai tempi più antichi.
All'inizio dell'estate (in genere il 7 di giugno) mucche e capre venivano condotte dal paese ai pascoli montani dove erano state costruite casere e malghe utilizzate sia come ricovero per gli animali, sia come alloggio per le persone che avevano il compito di accudirle (malgari o casari). L'alpeggio durava per tutta l'estate e verso il 7 di settembre uomini e animali ritornavano al paese. Il lavoro dei casari, comprendeva il governo della stalla, la mungitura, la lavorazione per la preparazione di formaggio (formài), burro (spóngja) e ricotta (scuòta).
Durante il giorno, mentre gli animali pascolavano liberamente, i malgari occupavano il tempo realizzando vari oggetti utili alla loro attività quali stampi per il burro e collari per gli animali, attività che ad Andreis era realizzata con particolare abilità tanto da fare degli oggetti stessi veri piccoli capolavori di intaglio del legno.
Per la lavorazione del latte, tutte le malghe erano attrezzate di vari oggetti, ognuno con una sua funzionalità: lo sgabello per mungere, una tavoletta di legno munita di una o tre gambe di legno; il secchio di legno usato per la mungitura; il colatoio, un filtro per le impurità composto da una grande scodella in legno con un foro centrale nella quale veniva posta l'erba coladoria, il licopodio, che faceva da elemento filtrante; la caldaia (cjalderìa), grande recipiente in rame, che veniva appeso allamussa, un braccio orizzontale il quale a sua volta era fissato ad un palo verticale girevole in modo da poter avvicinare o allontanare la caldaia dal fuoco semplicemente muovendola con la mano; il bastone per la cagliata (glova), provvisto di varie diramazioni o pioli in legno inseriti trasversalmente al bastone stesso con il quale veniva rotta e mescolata la cagliata nella caldaia; il cascino (la talz), lo stampo rotondo in legno di faggio nel quale veniva messa la cagliata per darle laforma; una tavola munita di sgocciolatoi (tàbiu) su cui veniva posta la forma appena messa nel cascino; la zangola (pègna), recipiente di forma cilindrica leggermente più larga al centro, nella quale veniva versato il fior di latte per trasformarlo in burro tramite continuo movimento di un piatto in legno forato manovrato da un bastone che fuoriusciva dal centro del coperchio della zangola stessa.
Fonte: Provincia di Pordenone
Via Centrale
Andreis
http://www.museifriuliveneziagiulia.it/scheda_museo.html?id=31